lulù

Mi sono sempre chiesto come facciano i venditori di ombrelli ad essere sempre lì quando iniziano le prime gocce, pronti con la loro merce per l’occasione. E gli stessi che si trasformano in venditori di birre, girando nelle piazzette e nei parchi quando fa caldo, con le bottiglie ghiacciate.

Approfitto della giornata del primo maggio, e della pioggia che è caduta costante durante tutta la giornata, per parlare di un argomento importante.

Le giornate commemorative hanno insite in sé un pericoloso meccanismo, quello di fungere da valvola di sfogo, da catarsi, per mettere a posto la coscienza di tutti. Sono giorni ormai vuoti, che commemorano dei valori che non esistono più nella pratica. Ogni “giornata mondiale di…” è esattamente alla stregua di una commemorazione funebre, poiché solo i morti si ricordano in questo modo. Tempo addietro, è stata posta una lapide da qualche parte, e noi ricordiamo quella tragedia, che si affievolisce man mano che passano gli anni, perdendo di senso.

Le giornate della memoria sono fatte per ricordare qualcosa che manca, che non c’è più. Si festeggia il natale, perché Dio non c’è più, o non c’è ancora. San Valentino, perché quella cosa che chiamiamo amore è quanto di più lontano da quel sentimento. Il primo maggio, perché non c’è più il lavoro dignitoso e tutte le lotte sindacali sanguinose per ottenerlo sono state spazzate via negli ultimi quarant’anni sotto gli occhi assenti di tutti. Si festeggia l’otto marzo perché le donne vengono discriminate, sfruttate e uccise ancora. Si festeggia la giornata mondiale del teatro, perché il teatro manca. Poi, dopo le cene romantiche, i regali, fiori e ultimi acquisti per il cenone, tutti a dormire, che domani è un altro giorno.

Uno strano fenomeno si sussegue assieme a tutte queste feste: ognuna ha il proprio rituale, che ormai ha ben poco di sacro e ben molto di soldo.

Grotowski parlava del rituale, della trance, e degli “sciamani” che nei paesi esotici eseguivano riti per i turisti. Ma erano chiaramente riti fasulli, poiché fatti per intrattenere e stupire, non per trovare un legame con l’altrove.¹

Ogni cosa sta risentendo sempre più dello svuotamento (a partire dalla democrazia come metodo di governo per andare verso ogni valore possibile), al quale si contrappone il bisogno vittoriano di riempire tutti gli spazi vacanti con orpelli, con fronzoli e infine quisquilie. Ogni festa, ha perduto il proprio significato originario, in nome del consumismo, che trita tutto in un contenitore unico rendendo alla fine l’impasto insapore, incolore, inodore e viscido al tatto.

Oggi c’è una strana moda che dilaga tra i registi e chi mette in scena dei lavori teatrali. Quello di fare degli spettacoli per l’occasione specifica, seguendo sempre il soldo.

E’ il primo maggio? Allora faccio uno spettacolo dove parlo del lavoro, della crisi economica, delle morti bianche.

La festa delle donne? Allora faccio spettacoli che parlano della violenza di genere, mi azzardo magari a mettere in scena Lo stupro di Franca Rame. Ma devo sbrigarmi perché le mimose nei vasi appassiscono presto.

Natale? Ma a natale c’è la grande produzione: Jesus Christ Superstar, immancabilmente. Non contando tutti gli altri drammetti religiosi.

Per dirne un’altra, il centenario della prima guerra mondiale è stato per molti un evento fortunato.

E il quattrocentesimo anniversario della morte di Shakespeare mi permetto di non commentarlo nemmeno, è già troppo letterale e ci sono eventi già programmati per l’anno prossimo.

Adesso userò un termine bruttissimo, ma che descrive bene la situazione: siamo alla stregua del cine-panettone teatrale. Non c’è altro modo per dirlo.

C’è il vuoto. Non si ha l’urgenza di esprimere qualcosa di importante, di personale, di vero e sentito, ammesso poi che si abbia qualcosa da esprimere; questo è il mio dubbio amletico, è una domanda ricorrente che ciascuno deve rivolgere a se stesso: perché faccio teatro? E chiedersi ancora: cos’ho da dire attraverso l’arte che faccio? Se le risposte tardano ad arrivare, forse c’è qualche problema. Forse è proprio lì il problema.

L’arte in generale nasce da un’urgenza, da un’estrema voglia di comunicare, di dire qualcosa, di rendere partecipi di una visione del presente, ma meglio, del futuro: cantando, scrivendo, ballando, architettando, dipingendo, scolpendo, filmando… Per condividere un pensiero, un valore che accomuni tutti, che faccia comprendere come ogni singolo dolore è il dolore di ciascuno.

L’urgenza non aspetta le feste, le bandiere colorate, il conto alla rovescia. Per chi ha l’urgenza di esprimersi e ha qualcosa da dire, ogni giorno è dei lavoratori, delle donne, di Dio, per chi ci crede; i morti delle guerre sono quotidiani, l’amore è infinito e si festeggia a ogni respiro.

Perché è bello dire, ad esempio, “Partigiani sempre”, ma rimangono solo parole non accompagnate da azioni. Un po’ come il teatro oggi.

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Immagine: Gianmaria Volonté, dal film La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri, 1971

¹Awareness. Dieci giorni con Jerzy Grotowski. Gabriele Vacis, 2002

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