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Nel 1935, a 28 anni, Laurence Olivier si alternava con John Gielgud¹ nei famosi ruoli di Shakespeare: una sera lui interpretava Mercuzio e Gielgud faceva Romeo e la sera successiva gli toccava Romeo e Gielgud prendeva Mercuzio, la foto si riferisce a quest’ultima combinazione. In Italia lo fecero Vittorio Gassman e Salvo Randone² nel 1956, alternandosi nei ruoli di Otello e Jago.

Per uno studio sul Caligola di un paio di anni fa, avevo pensato al finale: lui che entra in scena con una pistola, mentre dei colpi riecheggiano nell’aria, urlando: “Anche tu eri compevole”, per poi cimentarsi nell’ultimo monologo. Nel mentre parla, inserisce una sola pallottola nel tamburo della pistola, facendolo roteare, e a intervalli stabiliti, puntandolo alla tempia prenendo il grilletto. Se la pistola avesse sparato, anche se il monologo fosse stato appena a metà, sarei caduto a terra come un ammasso di carne in balia della gravità e lo spettacolo sarebbe semplicemente finito lì. Altrimenti, avrei continuato a parlare e roteare il tamburo premendo il grilletto. Il caso ha voluto che arrivassi fino alla fine, e dopo il fatidico: “Io sono ancora vivo”, il proiettile che aveva girato fino ad allora mosso dal caso, si trovò finalmente nella giusta posizione. Ma ogni volta che la canna dell’arma mi sfiorava la tempia, io non sapevo se la pistola avrebbe sparato o meno, e sebbene a salve, il colpo a quella distanza ravvicinata non è poca cosa. E se avesse sparato, sarei dovuto cadere senza esitazione. Quindi ero costretto a stare vigile e presente in ogni istante.

Lavorando in un bar per un periodo, a volte nelle serate lunghe succedeva che mi annoiassi e così ho inventato un cocktail. L’ho chiamato Daltonic. L’unico ingrediente noto era l’acqua tonica, mentre gli altri li aggiungevo a piacere, afferrando delle bottiglie a caso di volta in volta. Il cliente si doveva girare di spalle mentre avveniva la preparazione e non poteva sapere cosa ci fosse esattamente dentro, a meno che non si trattasse di un finissimo intenditore. Ogni cocktail era diverso dagli altri, per colore, sapore e grado alcolico, a seconda degli ingredienti utilizzati. Le persone si appassionarono.

Leggendo le memorie di un regista sul teatro albanese ai tempi del realismo socialista, mi è rimasto impresso un aneddoto molto divertente. L’attore doveva entrare in un ufficio, avvicinarsi alla scrivania per cercare una pistola, aprendo i cassetti dal primo all’ultimo fino a che non l’avesse trovata. Per convenzione la pistola si trovava sempre sul terzo cassetto. Man mano che si svolgevano le prove, l’attore si era abituato a trovare la pistola nel terzo cassetto, tanto che non guardava più con attenzione all’interno. Allora il regista nascose la pistola un po’ più in fondo nel cassetto, in modo che si dovesse controllare bene per vederla. L’attore iniziò la scena, e trovandosi al terzo cassetto, non vedendo la pistola, fermò la scena sbraitando verso il trovarobe, accusandolo di non averla messa al suo posto.

Quante scene simili a quest’ultima ci sono a teatro oggi? E quanta fatica far sembrare che stiamo facendo queste scene per la prima volta e che non sappiamo come andrà a finire. Ma in fondo il lavoro dell’attore è anche questo, dirsi: questa sera Mercuzio non deve morire! Però quanti attori iniziano lo spettacolo già con il lutto al braccio?

Una ricerca in questo senso mi ha portato a sviluppare il concetto di “teatro d’azzardo”, anche nella pratica della scena.
Il teatro d’azzardo si pone come obiettivo quello di creare un’azione scenica in cui esiste una percentuale di casualità che l’azione stessa termini prematuramente o possa svolgersi in più modi passibili, grazie solo alla fortuna e alla legge di probabilità.

La probabilità viene affidata a un oggetto o un’azione particolare che ha la capacità di esser controllato dal caso in maniera evidente anche per lo spettatore, oppure evidente solo per gli attori.

Qui le ramificazioni diventano due: il gioco d’azzardo tra gli attori e quello per gli spettatori.

Ad esempio, tirare i dadi o una moneta, non sono per il pubblico azioni evidenti, poiché non ne percepiranno il risultato, quindi il gioco rimane all’interno della cerchia di attori. Immaginate un esempio: due attori lanciano una moneta per decidere chi dei due darà la notizia al re, del fallimento della loro missione. Il gioco tra gli attori in questo caso produce cambiamenti relativamente piccoli nella trama.

Immaginate ora, invece, se i due stessi attori, invece della moneta, giocassero a spararsi alla roulette russa: chi resta vivo, darà la notizia al re. Questa è un’azione evidente sia per lo spettatore che per l’attore. In questo caso il gioco produce cambiamenti grandi, sia nella pratica (un attore muore e non può più recitare, lo devono trascinare via dalla scena ecc…), sia nella trama (la gravità è tale che il personaggio preferisce morire che dare la brutta notizia al re).

Immaginate anche che gli attori, intercambiabili tra loro, prima di ogni spettacolo tirino a sorte per decidere i ruoli da interpretare, un po’ come Gassman e Randone. Oppure immaginate che lo facciano col pubblico lì, testimone.
Si tratta quindi drammaturgicamente di mettere in punti stabiliti un oggetto o un’azione che fungono da moneta o da dado… così l’azione teatrale è irrimediabilmente intaccata da questi eventi, che non possono essere ignorati ai fini dello sviluppo della trama o della fruizione dello spettacolo in generale.
E’ un inserimento volontario di uno o più elementi destabilizzanti per la struttura scenica e attoriale, il che porta a degli sviluppi o dei finali che possono cambiare da sera a sera, a seconda del caso.

Questo porta molteplici conseguenze:
La più ovvia è che si viene portati a rivedere uno spettacolo più volte poiché potrebbe rivelare novità che non si son potute vedere la sera prima. E comunque lo spettacolo sarà leggermente o pesantemente diverso da sera a sera, avendo ad esempio un diverso protagonista; così che gli spettatori non potranno dire di aver visto “lo stesso spettacolo”.

Si va anche contro una logica prettamente consumistica, secondo la quale lo spettatore/consumatore ha diritto di ricevere lo stesso spettacolo/prodotto, in perfetto stile da società dei consumi.

Ciò destabilizza anche un pubblico abituato a una struttura drammaturgica immutabile fatto di inizio, svolgimento, fine. Il pubblico potrebbe venir spiazzato, vedendo come nel bel mezzo del monologo, ritornando all’esempio di Caligola, l’attore si possa sparare e logicamente morire, terminando così prematuramente lo spettacolo, proprio al suo apice.

Le scelte sono varie e le possibilità drammaturgiche possono esser interessanti e pressoché infinite. Ma al contrario dell’improvvisazione teatrale fatta di canovacci, e al contrario di un rimediare alla dimenticanza di una battuta da parte di un attore, non si tratta di imprevisto, ma di caso, di casualità in una scelta multipla. Una sorta di imprevisto controllato. Questa situazione apre nuove strade, un ramo di narrazione drammaturgica piuttosto che un altro, e le ramificazioni possono essere più di una.

Il teatro d’azzardo quindi, influisce nello spettacolo in due fondamentali componenti:
Tiene vivo l’attore, il quale non sapendo come andrà a finire una determinata scena, è sempre qui e ora, non avendo la certezza della partitura fissa e immutabile. Altresì confonde lo spettatore, con tutti i benefici che ne conseguono.

L’impegno di Zahr Teater è quello di riuscire a realizzare degli spettacoli che incorporino questa ricerca, sia in termini drammaturgici che di messa in scena, nello spirito puro del teatro laboratorio.

 

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¹ John Gielgud (1904-2000), attore teatrale e cinematografico inglese, ha lavorato tra gli altri con Alfred Hitchckock, Sidney Lumet, Kenneth Brannagh, David Lynch, Orson Welles.
² Salvo Randone (1906-1991), probabilmente il più sottovalutato attore italiano. Ha lavorato con grandi registi come Francesco Rosi, Elio Petri, Antonio Pietrangeli. Memorabile la sua interpretazione teatrale del Berretto a sonagli di Luigi Pirandello (1970), nel ruolo di Ciampa, per la regia di Edmo Fenoglio.

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