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“We never talked about men or clothes,” […] “It was always Marx, Lenin and revolution—real girls’ talk.”¹ – Nina Simone

Da attore, e regista in fieri, mi capita di frequentare spesso altri attori o sedicenti registi, anche se quasi sempre me ne pento subito. Mi assale un gran sconforto e finisco per evitare come la peste quei giri, perché quasi sempre conducono a una spirale di banalità e pressapochismo che termina nel nulla.
Con i miei colleghi, i quali si presuppone siano o tendano a essere uomini d’azione e di cultura, nei rari momenti in cui sono ben disposto nei loro confronti, vorrei discorrere di teatro, arte, musica, pittura, filosofia, storia… e perché no, politica, e anche economia, sì, l’ho detto.
Normalmente tendo sempre a mantenere il livello della discussione al di sopra della quotidiana patina di morte del pensiero, ma quello che ricevo in cambio è una specie di paura mal celata dietro frasi generiche, tremolanti e senza spina dorsale.
Mi ritrovo ad ascoltare discorsi che rimandano sempre all’ultimo video visto in internet, all’ultima notizia fuorviante ascoltata in televisione, a recensioni entusiaste di film industriali triti, ritriti e fatti tutti quanti con lo stampino della mediocrità. Questo quando va bene. Quando va male invece, sento parlare di scarpe. Non è una battuta.
C’è un grosso problema nella società, quello dei discorsi da bar, e se questo lo giustifico un po’ di più ai poveri frequentatori abituali dei vari bar sport, non lo posso giustificare a degli attori, uomini e donne di arte, che pubblicamente dicono di avere il teatro come unica vita. Un attore, come mi disse una volta Mamadou Dioume, “dev’essere un topo da biblioteca”.
Fintanto che ci saranno attori che preferiranno parlare di futilità passeggere, come pretendiamo che ci siano interpreti di Shakespeare, autore attuale dopo cinquecento anni dalla nascita?

Tornando ai discorsi dei miei colleghi, sento, come se non bastasse, sparlare spesso, di questa o quell’altra attrice, di questo o quell’altro regista, questo o quell’altro spettacolo. Sempre tutto di nascosto, alle spalle dei diretti interessati. Eppure quando sono lì, davanti all’attrice, al regista o allo spettacolo si perdono in lodi e applausi.
Mai nessuno che esca allo scoperto e alzi il livello del dibattito una volta per tutte togliendo la maschera del finto buonismo, dicendo che, per fare un esempio, la maggioranza degli spettacoli che si vedono in giro a Milano, sono mediocri, di basso livello registico e soprattutto recitativo, e che a tutti va bene così. A tutti. Va bene così.
Va bene così a chi li fa, così non è costretto a fare sul serio. Va bene così a chi li vede, così non è costretto a pensare sul serio. Va bene così ai teatri che li ospitano, perché non sanno più riconoscere il bello dal brutto (semmai abbiano mai avuto questa capacità), oppure perché semplicemente non trovano spettacoli belli. Perché, semplicemente, non ci sono spettacoli belli.
Alzi la mano chi la pensa diversamente, dopo aver ragionato con sincerità e autocritica. Se c’è qualcuno, ma ne dubito, allora faccio a ciascuno di voi la domanda che Peter Brook faceva negli anni ’60, imprimendola nelle pagine de “Lo spazio vuoto”, suo storico libricino nel quale parla di ‘teatro mortale’²: “questo teatro soddisfa le vostre aspettative?”. La risposta sta nel cuore di ognuno, e tutti sappiamo qual è.

Ora in molti di voi starà balenando la domanda: cosa intendi per uno spettacolo ‘bello’? Ovviamente la bellezza non è quantificabile in stelline sulle pochissime pagine ancora rimaste nei giornali dove si parla di teatro da parte degli ormai cosiddetti “critici”. Non è nemmeno una parola frettolosa di cinque lettere detta allo spettatore di fianco a noi prima di lasciare la sala.
La bellezza di uno spettacolo è data sempre da due cose:
La prima è l’urgenza nel voler e nel dover dire qualcosa attraverso il teatro. Se non c’è urgenza, non ci sarà fatica. Quest’ultima, la fatica, è il secondo ingrediente della bellezza. La fatica messa a preparare uno spettacolo è percepibile, quindi quantificabile fisicamente. Vediamo davanti a noi un attore che si sta donando a degli sconosciuti, sta donando la sua vita in sacrificio per salvarci, in quell’ora e mezza che gli viene concessa, dalla nostra triste banalità di esistere in questa società che è il trionfo dell’inettitudine e della piattezza dell’uomo medio.
Ma la fatica è uno strano indicatore: sicuramente se non stai faticando, non stai lavorando. Ma se stai faticando, non vuol dire necessariamente che stai lavorando correttamente. In definitiva, uno spettacolo che abbia queste due caratteristiche, ha il privilegio di poter portare uno speciale silenzio, che ormai si percepisce sempre molto poco.

Grotowski, durante un laboratorio condotto all’Odin Teatret nel luglio del 1968, diceva agli attori presenti, riguardo il lavoro: “[…] Ciò che vorreste è un lavoro rilassato che si autoassolva con un sorriso affascinante, un lavoro dal quale sia soppressa ogni crudeltà reciproca, ogni istanza di verità. Per voi il tatto è più importante della verità. Buoni rapporti tra colleghi, un clima di gentilezza e illusione reciproca”³. Parafrasando queste poche frasi e contestualizzandole nel nostro discorso, possiamo riuscire a concludere che la crudeltà non fa male al teatro, tutto il contrario. Sono i sorrisi che fanno male al teatro, gli applausi immeritati, il lecchinaggio, quei “buoni rapporti tra colleghi” di cui parla Grotowski.

Finché il teatro mortale di oggi, starà seduto sul suo trono fatto di nulla, circondato da tutti i suoi cortigiani e vassalli contenti dello status quo, nessun vero cambiamento potrà accadere al Teatro, che da troppo tempo si trascina tra bandi ed elargimenti ministeriali, che si danno come le briciole della tovaglia ai piccioni.
Urge una rivoluzione dell’attore, prima che del suo modo di lavorare, della tecnica e della dedizione, serve una rivoluzione nel suo spirito, nella sua sincerità, nella sua autoanalisi come essere umano. E anche nella sua provocazione, che non sia però priva di fondamento; uno su tutti, Carmelo Bene, il quale asseriva pubblicamente: “…e distinguiamo anche la squallida prosa degli Albertazzi. Io avevo un cane lupo, mi ricordo, anzi ne ho avuti due, e siccome per i lupi che amo molto non ho mai adottato dei nomi, adottavo cognomi… tutt’e due, si chiamavano entrambi Albertazzi. Ma io non intendo qui riferirmi proprio a un signore, Giorgio Albertazzi, intendo per Albertazzi tutti”.4

Dove lo troviamo oggi, in Italia, in mezzo a questi “buoni rapporti tra colleghi”, qualcuno che tenga alto il livello della discussione, della provocazione, della verità? Ben specificando che questa citazione di Bene è solo la punta insignificante di un iceberg immenso. Eppure, oggi, basta e avanza per fare scandalo.

Allora, come sì è rotto la quarta parete, si rompa anche, e una volta per tutte, la quinta parete, la parete delle buone maniere, della menzogna, della banalità e si inizi a ritornare bambini, e con la forza della sincerità e dell’innocenza che pare sia rimasta solo una loro prerogativa, si gridi: “Il re è nudo”. Altri seguiranno.5

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¹ The raised voice: how Nina Simone turned movement into music, The New Yorker
(http://www.newyorker.com/magazine/2014/08/11/raised-voice)

² […] il teatro mortale, indicava una via negativa, la patina di noia che percepiamo troppo spesso e con ragione quando il teatro si propone come routine e repertorio, come operazione di cultura museale e senz’anima; – Roberta Gandolfi, Quando il teatro si mise in cammino. Il viaggio di Peter Brook e del Centre International de Recherches Théâtrales negli anni Settanta, in compagnia del poema persiano Il verbo degli uccelli; Ricerche di S/Confine, vol. IV, n. 1 (2013)

³ Jerzy Grotowski, L’albero e il serpente. Pubblicato in “Teatro” n. 1 (1969), il Saggiatore

4 Carmelo bene, Rai, trasmissione “Schegge”. (https://youtu.be/vpclE7Iujic)

5 Titolo di una raccolta di poesie di Alexandros Panagulis (1939-1976), poeta e rivoluzionario greco, pubblicata nel 1972.

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