zahr teater

Il 6 marzo del 2016 mi trovavo a Torino per condurre il mio allora nuovo laboratorio, “Roots and wings”, dopo che ne avevo stilato i pilastri portanti. “Roots and wings” era ed è per me l’alfabeto dell’attore, le lettere di cui si deve comporre il linguaggio teatrale di chiunque voglia essere scenicamente vivo, comprensibile e convincente.
Consiste in molti esercizi per sviluppare e rafforzare la pre-espressività, anche detta presenza scenica, condizione indispensabile dell’attore per poter poi esprimere dei contenuti poetici. Come diceva Eugenio Barba, “prima di comunicare, bisogna esistere come attore”, quindi prima di scrivere poesie, bisogna imparare a parlare.

Ero ospite alla Cavallerizza occupata, un enorme e splendido conglomerato di edifici, una volta proprietà del Teatro Stabile di Torino. Era sabato, l’appuntamento era fissato per le otto di mattina, la mia sveglia suonò alle sei e mezza. Svegliandomi guardai fuori dalla finestra: stava nevicando moltissimo, sembrava surreale. Andai a preparare la sala, faceva freddo ma c’era qualcosa di bello nell’aria, come quando si sta in sintonia con l’universo.

I ragazzi arrivarono pian piano, ciascuno col proprio bastone di legno… e tranne qualche foto e una troupe cinematografica che ci riprese per un paio d’ore e poi scappò chissà dove, quello che successe rimarrà nei ricordi. Ma una cosa è importante condividerla: a un certo punto siamo usciti fuori a giocare a palle di neve, e si vedevano ragazzi e ragazze di venti-trent’anni ridere e divertirsi come bambini, e alcuni non ci avevano mai giocato prima. Nei loro occhi la verità e la spensieratezza dell’infanzia. Il loro corpo aveva ripreso a essere loro, con tutta l’organicità che richiede l’essere vivi. Era come se la neve mi avesse aiutato a trasmettere il messaggio: per esser attori bisogna non smettere di essere bambini, bisogna avere quella verità, quella sintonia tra corpo, emozioni e mente, che solo la fanciullezza ancora conserva. Non smettevo mai di ripetere loro che è proprio per questo che in moltissime lingue del mondo “recitare” vuol dire anche “giocare”. To play. Sta tutto in queste due parole: to play.

Zahr Teatër nasce da quella neve, e come neve ogni giorno cade e si scioglie, per ricominciare il giorno dopo, con ancor più intensità, e bisogna essere lì per vederla, assaporarne il momento, perché il giorno dopo non si sa se ce ne sarà ancora. E mi ritorna in mente quello che diceva il mio maestro d’Accademia: “Cari ragazzi, noi attori scriviamo sull’acqua”.
Zahr Teatër nasce dal freddo di una sala gigantesca, dalle luci che a un certo punto andarono via, dai venti minuti o più passati in silenzio, immobili, scalzi, al buio e al freddo senza pronunciare una sillaba, dalla sofferenza di sopportare un insegnante che sprona a insistere, dicendo che il freddo non esiste pur dovendo farne lui stesso i conti. Poi le luci tornarono e noi continuammo, il corpo umano sopporta e alla fine vince, per far sembrare la prossima difficoltà un po’ più semplice, in attesa di una nuova sfida.
Zahr Teatër nasce dal fango del giorno successivo, dalla rinuncia di alcuni, dalla resistenza degli altri, nasce dall’odio verso quell’insegnante, che con supponenza insegna tutto quel che sa e anche di più, a chi ha sete di imparare. Sono sicuro che nessuno di quei ragazzi ha dimenticato quell’esperienza, perché era pungente come il freddo che ti entra nelle ossa, ma rivitalizzante come il fuoco di un enorme falò alimentato con tutte le nostre paure, resistenze, cliché, manierismi, abitudini e banalità, lasciate bruciare in primavera, per poi, una volta cenere, mostrare quello che rimane di noi, spogliati di tutto quell’inutile che questa vita ci mette addosso.

E vediamo semplicemente un bambino che mentre si guarda dagli attacchi degli altri, affonda velocemente le dita nella neve e forma una palla, pressandola con le mani nude. Poi prende la mira, trova il suo “sats”, anche se ignora cosa sia, e colpisce. Ecco, Zahr Teatër è quell’attimo di sospensione in volo di una palla di neve, è quel sorriso speranzoso e un po’ compiaciuto che attende di espandersi in una risata sguaiata sul viso di un fanciullo che poi corre a nascondersi.

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