L’allenamento non prepara all’atto creativo, è una leggenda, l’allenamento agisce contro il tempo quando invecchiamo… mantiene la freschezza del corpo, delle reazioni, spezza il sentimento di resistenza, dà un senso di fiducia, in questo senso è d’aiuto. Ma ci si può torturare con gli esercizi per mesi e anni e non essere mai creativi, non bisogna dimenticarlo. Gli esercizi sono come la pulizia dei denti, è un’azione necessaria, ma non creativa. Ci sono comunque esercizi che destano la coscienza di certi problemi del mestiere creativo. […]”¹ – Jerzy Grotowski

La tecnica, il lavoro “freddo” è spesso descritto come una scelta di stile. È in molti casi un rifiuto. La storia di Stanislavskij testimonia come la sua radicale ricerca scientifica sulle basi tecniche dell’attore abbia alle sue radici il temerario e lucido tentativo di compensare la mancanza d’un talento naturale. L’Odin Teatret aveva vissuto questo in prima persona: sembravamo affascinati dal virtuosismo perché eravamo costretti ad essere autodidatti.”² – Eugenio Barba

Sul training si è discusso moltissimo e si discute ancora adesso. Già Grotowski ed Eugenio Barba non concordano, e qui ci sarebbe molto di cui parlare. Molti studiosi hanno scritto libri su libri al riguardo, e questo articolo non aggiungerebbe molto alla mole di documenti già reperibili. Non vorrei discutere qui quindi sull’utilità del training per l’attore, in sé, argomento sul quale si è scritto già di tutto. Sugli esercizi e la loro diversificazione pure si è parlato molto: emblematico è il libro di Patrick Pezin, 600 esercizi per attori che raccoglie dieci anni di studi dell’Institut International de l’Acteur fondato nel 1990.

Vorrei parlare del training come disciplina professionalizzante del mestiere dell’attore.

Vedo l’attore come un giocatore di calcio, il quale per giocare al massimo un’ora e mezza la domenica, si allena da lunedì al sabato per otto ore al giorno e segue una dieta rigorosa. Un giocatore che per essere pronto a tirare un rigore in partita, bene che vada, durante ogni allenamento ne tira cinquanta. Nessun allenatore farebbe mai giocare un calciatore che ha saltato gli allenamenti settimanali, poiché non sarebbe all’altezza della situazione e tutta la squadra ne risentirebbe.

In questo, calza un’affermazione di Barba nei primi anni della sua avventura, dove dice: “Se non faccio training per un giorno, solo la mia coscienza lo sa; se non lo faccio per tre giorni, solo i miei compagni lo notano; se non lo faccio per una settimana, tutti gli spettatori lo vedono.”³

Perché gli attori dunque non si comportano da calciatori? Perché non danno un senso sportivo o artigianale alla loro professione?
Un esempio che forse farà sorridere ma che utilizzo per incalzare ancora sul calcio: in Italia fino a pochi anni fa esisteva un Istituto previdenziale per gli attori, chiamato Enpals, ossia “Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo e dello sport professionistico”, nel quale erano accomunati anche ovviamente i calciatori. È quantomeno una curiosa coincidenza che dei burocrati da qualche lontano ufficio grigio ci suggeriscano che esiste un nesso che accomuna queste due discipline, teatro e sport, apparentemente diversissime tra loro.

Tornando a noi, lo avete mai visto un calciatore in carriera seduto per ore al bar a sorseggiare una birra? No, perché i suoi allenamenti sono tali per cui il suo tempo libero si riduce drasticamente. Un calciatore fa il calciatore, e basta. Invece l’attore se ne va in giro a bighellonare tutto il dì, alla mercé degli sguardi e poi si lamenta quando alla risposta: “sono attore” le persone gli ribattono: “sì ma come lavoro cosa fai?”. La gente della strada non è così stupida come appare, bisogna decodificare certi comportamenti che si ripetono, traendone lezioni preziose.

L’attore, soprattutto in Italia, deve dare alla propria professione una dignità fuori dal comune, proprio perché la percezione delle persone sul suo lavoro è tale da mettere in ridicolo la categoria. E a buona ragione, bisogna ammettere.

Il training quindi dovrebbe essere l’arma che l’attore deve usare per proteggere il proprio mestiere, infondendogli serietà, dignità e professionalità, tutte qualità che mancano oggi al lavoro dell’attore italiano.

Scrive Julia Varley:
“Uno degli spettatori che vide L’Eco del Silenzio, la mia prima dimostrazione, era un macellaio di una piccola cittadina di provincia. Mi disse: “Ora so che anche gli attori hanno un mestiere”. Per lui era incredibile scoprire il lavoro e il sudore in un mondo che immaginava fatto solo di ispirazione e talento. La spettacolarità della dimostrazione consisteva nel rivelare in scena la concreta realtà di dettagli e stratagemmi sottostante al teatro.”4

Quanto prima il lavoro dell’attore deve tornare ad essere quotidiano, bisogna togliersi di dosso l’idea che questo sia un mestiere dove c’è solo la parte bella, il pubblico, gli applausi, i soldi, la fama e il dolce far niente; bisogna sudare, soffrire, lavorare e spendere molte ore al giorno ad affinare lo strumento della nostra arte, ossia il corpo-mente. In solitudine o con pochi altri, lontano dagli sguardi di ammirazione e armati di umiltà e pazienza. Senza questo, nessun lavoro artistico potrà mai essere valido, nessuno spettacolo con degli attori inerti (inetti), fatto in tre settimane di prove, potrà reggere all’incontro con il pubblico. Bisogna sporcarsi, perché la pulizia abbia senso.

C’è un racconto che ho molto a cuore, fin da quando me lo raccontavano da piccolo:

Un vecchio chiama al letto di morte i suoi tre figli fannulloni e dice loro che sotto i suoi campi aveva sepolto un tesoro inestimabile, un forziere peno di monete d’oro. Muore prima di fare in tempo a rivelarne la posizione esatta.
I figli iniziano a scavare la terra in ogni parte e profondità alla ricerca del forziere. Per mesi. Ma non trovano niente. Col passare del tempo, notano che la terra iniziava a produrre frutti: pomodori, carote, patate, melanzane… molti ortaggi che i tre mangiavano nelle giornate faticose passate a scavare. Ma c’era talmente tanta sovrabbondanza, che iniziarono a venderle al mercato e piano piano costruirono orti e serre per continuare la coltivazione.
In pochi anni diventarono ricchi, e capirono che in verità non c’era mai stato nessun tesoro, e che il vero tesoro è arrivato grazie a un lavoro faticoso, instancabile e perpetuo, la cui importanza si rivelò solo molto più tardi.

Per me il training è scavare cercando per anni un tesoro sepolto che non c’è. C’è chi lo cerca scavando una buca sola, andando sempre più in profondità. C’è chi invece scava una buca, per qualche metro, poi si sposta, e ne scava un’altra un po’ più in là… e così via. Non è il metodo che conta, l’importante è scavare, per anni, alla ricerca di un tesoro sepolto che non esiste.

 

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¹ Jerzy Grotowski, Il Teatro Laboratorio (1992)
http://www.raiscuola.rai.it/articoli/jerzy-grotowski-il-teatro-laboratorio/4750/default.aspx

² Eugenio Barba, La danza dell’algebra e del fuoco
“Culture Teatrali” No.13, Bologna 2005 . Incluso in: La conquista de la diferencia, Lima, Editorial San Marcos, 2008

³ Frammento di un testo, scritto nel 1964, incluso nel volume “Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta” pubblicato da Ubulibri nel 1996.

4 Julia Varley, Il tappeto Volante
“Culture Teatrali” No.13, Bologna 2005.
(Julia Varley è un’attrice storica dell’Odin Teatret)

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One thought on “L’importanza del training teatrale, un punto di vista”

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