bunker

Il teatro è prima di tutto lavoro. Senza lavoro non può nascere niente di bello e importante. Voi credete che basti relegare il teatro a uno dei tanti impegni che riempiono le vostra quotidianità e vi aspettate di ottenere risultati. Ma non funziona così. Il teatro ha bisogno di tempo e di spazio. Non accetta di essere relegato a un impegno qualsiasi. Vuole la vita, perché è vita.

Bisogna fare chiarezza con sincerità nella propria mente, chiedendosi: io voglio fare teatro? Perché? Sono disposto a dedicare al teatro la mia vita?

Ci sono molte persone che per una vita intera lavorano 8-9 ore o anche 10 ore al giorno in fabbrica o davanti allo schermo di un computer, quando va bene, e voi non dedicate al teatro che qualche ora alla settimana, quando va bene, e vi definite attori. Perché? Voi direte: beh, ma quel lavoro di 8-9 ore al giorno aiuta quelle persone a mantenersi, e col teatro non si vive. È proprio questo il punto al quale volevo arrivare.

I maggior innovatori del teatro del ‘900, Stanislavski, Grotowski, Barba, Brook per certi versi, sono stati dei privilegiati.

Stanislavski veniva da una famiglia agiata, cosa che gli permise di dedicarsi anima e corpo all’arte teatrale. Grotowski viveva in un sistema comunista che nel bene e nel male gli permise di avere la direzione di un teatro e di un gruppo di attori pagati dallo Stato. Eugenio Barba ebbe la fortuna che il suo lavoro venisse visto e appoggiato da un comune della Danimarca per oltre 50 anni. Peter Brook ebbe l’ingegno di trovare sostegni economici privati che gli permisero di mettere in piedi il C.I.C.T. per molti anni, indagando in maniera preziosa sul teatro e sulle sue origini.

Tutti questi gruppi sono stati fortunatamente privilegiati: cosa ne sarebbe stato di Stanislavski se fosse stato figlio di contadini, di Grotowski se fosse nato in un altro sistema economico-sociale, di Barba se il suo Odin Teatret avesse continuato a fare le prove degli spettacoli in un bunker antiaereo della Norvegia?¹

Per fare teatro, un teatro che innova e fa ricerca, c’è sempre stato bisogno di mezzi economici e di persone determinate, le quali grazie alla sicurezza economica potevano avere come unica preoccupazione il teatro e niente altro. I risultati di tutto questo a distanza di un secolo li abbiamo sotto gli occhi.

Ma come riuscire oggi, in un’epoca economicamente precaria, dove la cultura viene relegata, per volere dall’alto, all’ultimo grado di importanza (anche se non lo è per necessità), a fare sì che il teatro sia la maggiore preoccupazione di chi lo fa? Innanzitutto, come dicevo, ciascuno che intende intraprendere questo cammino deve essere sincero con se stesso e chiedersi: quali sacrifici sono disposto a fare per il teatro? Sono disposto a fare di quest’arte la mia prima ragione di vita? A sacrificare un’esistenza normale in cambio di questo azzardo?

Se la risposta è no, credo sia meglio per tutti che queste persone si dedichino ad attività differenti che possono venire incontro maggiormente alla soddisfazione di bisogni indotti dalla società dei consumi. Farsi una famiglia, (cosa legittima e coraggiosa) avere un buon lavoro, una casa, la macchina, dei figli… e raccontare loro del sogno giovanile della
recitazione.

Se la risposta invece è sì, viene ad aprirsi un’altra parentesi.

Innanzitutto bisogna rendersi conto assolutamente che viviamo in un sistema socio-economico come quello occidentale attuale, dove nella maggior parte dei casi si lavora una vita intera, il tutto solamente per pagarsi un tetto sopra la testa e del cibo da mangiare. All’attore, come a chiunque altro, servono quindi queste due cose, le quali nella pratica sono facilmente raggiungibili, a patto di “sacrificare un’esistenza normale in cambio di questo azzardo”. Qualcuno dirà: e lo spazio dove provare? Una risposta c’è già qualche riga più su, quando parlo dei bunker antiaerei. Però non mi dilungo più di tanto su come ottenere queste cose nella pratica, dato che gli esempi e le possibilità sono nel cuore di chiunque abbia un minimo di intelligenza e spirito d’adattamento.
Puntualizzo invece sul vero problema: il sacrificio, che nessuno è ormai più disposto a fare, o comunque sempre col contagocce, con cifre alla mano, ragionando su pro e contro… Eugenio Barba un giorno disse: “Paradossalmente è più difficile fare teatro in una democrazia che in una dittatura”. A ben vedere dalla qualità dell’offerta teatrale italiana, credo abbia ragione.

Il teatro è una questione di vita o di morte, non fa prigionieri, non ammette compromessi o tregue. È una lotta quotidiana alla banalità, alla mediocrità culturale e umana che ci troviamo ad affrontare. Serve essere radicali, ossia mettere radici. Più un albero ha radici forti e profonde, più potrà tendere a raggiungere il cielo.
E l’attore è proprio questo: un albero con le ali.

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¹ “Ci demmo allora alla clandestinità, alla lettera, in un rifugio antiaereo sotto la collina di St. Hanshaugen. Lì la temperatura era sempre sui 13 gradi, l’aria umidissima, l’illuminazione difettosa. Nel soffitto passavano grandi tubature per l’aria, da cui veniva un continuo e fastidioso brusio. Inoltre l’acqua filtrava giù dai muri di pietra, con una sgocciolio quasi stereofonico. […] Stabilimmo l’area scenica in una parte un po’ più asciutta del pavimento. La ricoprimmo di giornali, riviste, vecchi pezzi di moquette o di linoleum. Ci ingombravano nei movimenti, ma in questo modo imparammo a regolarli sulla base delle situazioni, e credo sia stata una esperienza importante.” – Else Marie Laukvik (Teatro e Storia, Gli anni di Ornitofilene 1964-66)

 

 

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