La prima cosa, la più istintiva che l’attore fa quando si cimenta su un testo o su un’improvvisazione è quella di suggerire l’emozione, invece di viverla nel corpo, poiché suggerirla gli comporta molta meno fatica. Facendo questo, ricorre a dei cliché preconfezionati di sentimenti, che all’occorrenza rappresentano e illustrano “in generale” la rabbia, la tristezza, l’amore, ecc… ma tutto ciò risulta falso nella percezione dello spettatore, il quale riconosce il trucco, si annoia di tutti quei manierismi e non sta più al gioco.

Si badi bene, vivere le emozioni nel corpo, significa proprio viverle con il corpo, con le azioni fisiche realmente compiute (anziché illustrate), non con la mente e la psicologia dei sentimenti tanto cara a Strasberg. L’attore deve essere logico, non psico-logico. Tutti quegli attori che si struggono per piangere “pensando a qualcosa di triste” commettono in teatro un errore di fondo molto grave.

Stanislavskij ha detto una delle più importanti frasi della sua ricerca, negli ultimi anni della propria vita: “Non mi parlate di sentimenti, non possiamo fissare i sentimenti, possiamo ricordare e fissare solo le azioni fisiche”.¹ Nonostante questo, a ottant’anni dalla sua morte, gli attori tentano ancora di illustrare i sentimenti.

Il pubblico non vuole vedere la rabbia “in generale” (anche perché, come si recita il sentimento della rabbia senza scadere nella banalità?), vuole vedere come quella determinata rabbia di quel determinato momento e contesto vive nel corpo di quel determinato personaggio, modificandone i connotati.

Il pubblico si annoia di tutto quello che riesce a pre-vedere e ri-conoscere con troppa facilità. Ma si sa che a lungo andare la goccia, se cade sempre nello stesso punto, buca anche la pietra e succede che, dicendolo con le parole di Naum Prifti, drammaturgo e scrittore albanese, “…guardando continuamente piéces deboli, iniziano a sembrarci buone anche le piecés zoppe.” ²

Il pubblico ormai è un po’ confuso su quello che dovrebbe essere una buona recitazione: molti spettatori credono che l’attore bravo sia quello che fa sentire loro tranquilli e a proprio agio, non disturbandoli troppo dal torpore quotidiano, non costringendoli insomma a pensare.

Per questo motivo credo che una riforma del teatro debba passare sicuramente e prima di tutto per l’educazione del pubblico. Questo si fa primariamente educando la nuova generazione che verrà (e secondariamente diminuendo il prezzo dei biglietti degli spettacoli, per la generazione di adesso), istituendo nella scuola una giornata a settimana dedicata al vedere spettacoli, diversificando così le ore di Letteratura rendendo anche meno noioso l’apprendimento in generale.

Succederà così che un bambino, durante tutte le scuole elementari avrà visto almeno duecento spettacoli di teatro, e almeno altri centoventi alle medie, e altri duecento alle superiori, arrivando a vent’anni ad averne visti cinquecentoventi, solamente a scuola: un numero che la stragrande maggioranza degli individui oggi non riuscirebbe a eguagliare nemmeno se vivesse due vite insieme.

Sarebbe poi difficile ingannare un ragazzo esperto di teatro facendogli vedere delle pieces così scarne come al giorno d’oggi, vendendogliele al peso di una prelibata polpa.

Il pubblico, così abituato al linguaggio teatrale, oltre ad avere vantaggi a tutto piano nell’accrescimento della propria cultura personale, nello sviluppo della fantasia e nella conservazione di quella credulità genuina dei bambini (diventando quindi un pubblico di esseri umani) potrebbe diventare il predatore che svolge una selezione naturale delle compagnie che meritano di esistere e quelle che non lo meritano, spingendo quest’ultime a evolversi oppure estinguersi; il teatro ringrazierebbe sentitamente.

Allora sì, si potrebbe passare con molta più semplicità a educare anche l’attore e il regista, all’arte teatrale.

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¹ Vasilij O. Toporkov, Stanislavskij alle prove, gli ultimi anni, Ubulibri, 1998

² Naum Prifti, Teatri në kohën e krizës (Il teatro al tempo della crisi), Horizonti, 2001

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