Sull’uso della dizione nel teatro e il recupero dei dialetti come organicità della parola

La dizione, o come direbbero a Roma gli attori che hanno frequentato le accademie: “l’addizione”. Non si tratta di matematica ma semplicemente di parlare in maniera corretta la lingua italiana. Il problema della lingua italiana, però, come scrive Pirandello in un articolo dell’ottobre del 1890 intitolato Prosa moderna, è che: “[…] la lingua nostra, che a volerla cercare, non si saprebbe dove trovarla, in realtà non esiste che nell’opera scritta soltanto, nel campo cioè della letteratura. Un gran numero di parole che nella lotta per l’esistenza sarebbero cadute, hanno avuto in essa e per essa la loro forza di resistenza; e ora costituiscono una sovrabbondanza, che non è ricchezza, ma, come ogni eccesso, è vizio, e generano confusione e mancanza di sicurezza nella scelta”.

Infatti dal censimento della popolazione del nuovo regno d’Italia (regno, ricordiamolo, unificato con la forza e non con il volere popolare), nel 1861, emerge che l’oltre il settantotto per cento della popolazione italiana risulta analfabeta. Questa percentuale era più alta poiché “i non analfabeti erano lontani in genere da un possesso reale della capacità di leggere e scrivere. Nell’anno scolastico 1862–63, l’istruzione post elementare veniva impartita all’8,9 per mille della popolazione in età compresa fra gli 11 e i 18 anni. Per cui gli «italofoni» erano poco meno dell’uno per cento”. ¹

Si può concordare quindi con Nicoletta Maraschio, presidente dell’Accademia della Crusca, quando dice che “la storia della lingua italiana è stata essenzialmente, fino a circa un secolo fa, la storia di una lingua scritta, quindi è stata una storia fatta di libri”. ²

Le grandi trasformazioni strutturali, politiche e burocratiche del paese hanno in seguito permesso alla lingua italiana di farsi largo per tutto il fine secolo e gli inizi del novecento; successivamente i mezzi di comunicazione di massa come giornali, radio e cinema, sono stati ampiamente utilizzati dal regime fascista per combattere l’analfabetismo e propagandare nello stesso tempo il mito di un’Italia unita, ricca e benestante. Ricordiamo tra l’altro che la nascita del doppiaggio in Italia, argomento che merita un articolo a parte, è dovuta al regio decreto n.1414 del 5 ottobre 1933,il quale sanciva il divieto di doppiare in italiano film stranieri al di fuori del territorio italiano. ³

Nel dopoguerra, il compito di istruire gli italiani alla propria lingua, dal 1953 spettò alla neonata televisione, la quale ha fatto molto contro l’analfabetismo, ancora ampiamente esteso soprattutto al sud e nelle isole. Programmi come “Non è mai troppo tardi”, andato in onda dal 1960 al 1968, servivano a istruire quella ampia fetta di italiani (4% della popolazione, ossia due milioni di persone), ancora analfabeti.

Tuttavia, anche dopo questi grandissimi cambiamenti storici e politici, oggi ogni regione italiana abbonda di dialetti i quali trovano un uso esteso anche da parte delle fasce giovani della popolazione: capita perciò frequentemente che due persone di regioni distanti tra loro parlando ognuno nel proprio dialetto, non si capiscano. Breve ma memorabile parentesi a questo proposito è la scena del film “Totò, Peppino e la malafemmina”, del 1956, dove Antonio De Curtis si rivolge al vigile milanese dicendogli: “noio volevan savoir…” con il vigile che risponde: “se ghè?”

Dice a tal proposito ancora la Maraschio: “L’Italia comunque è stata e rimane un paese tipicamente multilingue. Anche oggi oltre il 30% della popolazione usa abitualmente un dialetto, in casa e sui luoghi di lavoro;”.

Quella italiana può quindi, oggi, considerarsi una lingua a tutti gli effetti, ma i dialetti permangono come substrato anche quando si parla l’idioma ufficiale (che io mi azzardo a definire una seconda lingua, invece di trattarla come lingua madre) e la sonorità e cadenza di chi parla, a volte marcatissima, tradiscono la provenienza geografica, portando con loro interessanti “problemi” di carattere fonetico.

La lingua Italiana per strutturarsi e sopravvivere inalterata si è dovuta quindi munire di organi preposti alla creazione e al mantenimento di precise regole fonosintattiche. La cosa importante di una lingua, soprattutto di una che nasce dalla letteratura, è la fonetica, la sonorità: la lingua deve essere pronunciata nello stesso modo da tutti. Deve andare dalla carta alle labbra. Ecco dunque la dizione, ovvero l’insieme di regole in cui vengono articolati i suoni di un linguaggio.

Nonostante molti attori di teatro abbiano frequentato un’accademia dove la dizione è materia imprescindibile, è difficile eliminare le cadenze regionali poiché sono state acquisite durante l’infanzia e permangono, dicevamo, come substrato, quasi come una lingua madre. ‘L’uomo della strada’ infatti, difficilmente parlerà in maniera nativa l’italiano ufficiale, fatto di tutte le precise regole d’una buona dizione, mentre il teatro si ostina ancora a esigerla, questa lingua artificiale, non nata in maniera organica ma imposta a tavolino, poiché dal tavolino partorita.

Si viene a creare dunque una lingua franca nella recitazione teatrale della penisola, ed è la lingua italiana pura, corretta foneticamente al millimetro, una lingua che non si parla da nessun’altra parte se non in teatro. Una lingua che sembra artificiale non solo perché, come dicevamo, nasce come lingua letteraria, ossia scritta e non parlata, ma sembra artificiale proprio perché difficilmente la si trova nel “mondo vero”, nel mondo fatto di parole pronunciate da persone vive, con un proprio retaggio linguistico, per formulare discorsi concreti.

Allora perché il teatro si avvale di una lingua che sonoramente non ha corrispondenze presso il popolo? Principalmente per due motivi.

Primo: per creare una lingua comune che non possa più connotare l’attore in quella o quell’altra regione geografica, poiché non si veda l’attore con la sua provenienza personale, ma il personaggio… con l’unico  risultato di renderlo inflessibile e piatto, bidimensionale, come un testo scritto.

Ovviamente qui non teniamo conto del teatro dialettale, o di casi a parte come i De Filippo, Totò, Benigni eccetera, poiché appartengono alla categoria degli attori caratteristi che si identificano totalmente con i propri personaggi, e fanno della loro provenienza regionale un punto di forza. Parlare in una lingua scevra da inflessioni dialettali, serve anche a rispettare l’autore e non aggiungere informazioni che possono snaturare il dramma. Ad esempio un Romeo che parla in romano stretto darebbe a Shakespeare un colore non previsto, (oltre che mettere in dubbio che il tutto sia ambientato a Verona), facendo scaturire l’ilarità dei presenti.

L’altro motivo riguarda precisamente il dramma stesso: il drammaturgo italiano, oppure colui che traduce drammi in italiano, tranne poche eccezioni, è stato ed è al giorno d’oggi (purtroppo) un letterato, e se non sta molto attento rischia di riempire il suo o altrui dramma di parole bellissime, sì, ma sulla carta. Per essere lette, non per essere pronunciate. Questo è il pericolo di chi scrive o traduce per il teatro e il cinema. Pericolo che Pirandello conosceva assai bene, avendo partorito molti drammi anche in dialetto, facendo persino operazioni trasversali di riadattamento, traducendo le proprie opere dal dialetto all’italiano e viceversa, salvandosi come drammaturgo dai pericoli della lingua scritta, forse per via di quella organicità che la parlata dialettale naturalmente gli consentiva, organicità rimasta come solco invisibile anche nei suoi drammi in Italiano.

Il problema dei drammaturghi va risolto quanto prima, iniziando con fare la distinzione tra drammaturgia e letteratura: un dramma teatrale non deve essere considerato alla stregua della letteratura, ha una natura diversa, poiché le parole teatrali devono fare i conti con il suono, il senso e il potenziale vibratorio che scaturisce quando esse vengono pronunciate da un essere umano vivente e pensante. I drammaturghi devono ispirarsi alla vita, se hanno l’interesse a rendere vive le proprie storie.

Tutto questo poi va a cadere nel grottesco quando a interpretare testi teatrali scritti per la carta, si cimentano degli attori che parlano in una dizione smodata, completamente irrealistica e lontana anni luce anche dalla parlata più corretta di un insegnante o di un letterato. Ci sono casi in cui la sospensione dell’incredulità diventa molto ardua anche per il pubblico più disponibile. Bisogna ricordarsi sì che la dizione per un attore è una materia importante da studiare e conoscere, e la cadenza regionale va limata come scelta conscia alla quale potersi permettere di rinunciare in qualsiasi momento, più che per un’esigenza teatrale e accademica, ma cosa importante da comprendere è che una determinata tecnica attoriale, qualsiasi essa sia, dizione compresa, va interiorizzata, per nascondere la tecnica, perché questa venga incorporata e diventi quindi organica, non per esaltarla e rimanerne prigionieri. Vittorio Gassman, forse il più tecnico e pignolo attore italiano, ha detto, in vecchiaia:

“Io se, come mi illudo, ho fatto qualche passo di maturazione, l’ho fatto proprio nel mascherare un po’ meglio la tecnica in favore dell’emozione, della verità”.

Arrivando a una distinzione che ci porta al fulcro del nostro discorso, Pirandello differenzia tra:

“Due tipi umani, che forse ogni popolo esprime dal suo ceppo: i costruttori e i riadattatori, gli spiriti necessarii e gli esseri di lusso, gli uni dotati d’uno «stile di cose», gli altri d’uno «stile di parole»;

Nei primi le cose non tanto valgono per sé quanto per come sono dette, e appare sempre il letterato o il seduttore o l’attore che vuol far vedere com’è bravo a dirvele, anche quando non si scopra.

In questi altri, la parola che pone la cosa, e per parola non vuol valere se non in quanto serve a esprimere la cosa, per modo che tra la cosa e chi deve vederla, essa, come parola, sparisca, e stia lí, non parola, ma la cosa stessa”.

Per cui ci sono gli ‘attori di parole’, che si aggrappano alla tecnica come l’ubriaco si aggrappa al lampione: non per illuminarsi ma per sorreggersi:

“E là dunque un’architettura appariscente di sapienti parole musicali, che vogliono avere un valore per sé, oltre quello della cosa significata, ma che alla fine, poiché ci sentite la bravura, vi saziano e vi stancano.”

E poi ci sono gli ‘attori di cose’, che riescono a dire, attraverso:

“[…] una costruzione da dentro, le cose che nascono e vi si pongono davanti sí che voi ci camminate in mezzo, vi respirate dentro, le toccate: pietre, carne, quelle foglie, quegli occhi, quell’acqua”.

E’ un discorso, quello di Pirandello, originariamente destinato agli scrittori, quindi i drammaturghi si sentano pure presi in causa, poiché esistono ovviamente anche gli scrittori di parole e gli scrittori di cose, e quando uno scrittore di parole, incontra un attore di parole, si viene a creare una combinazione letale e mortifera: questo accade ancora, a quasi novant’anni da quel discorso, regolarmente. Bisogna urgentemente quindi salvare gli attori dalla tecnica smodata delle accademie, salvare i drammaturghi dalla trappola della letteratura e nel frattempo tenerli lontano dal teatro italiano. Ognuno lo può e lo deve fare, nel proprio specifico campo. Per quel che riguarda l’attore come essere umano, bisogna che egli si aggrappi con disperazione allo studio della parola viva, perché “solo la parola emessa può trasmettere allo stesso tempo il contenuto generale di un’idea, la forma particolare assunta da quell’idea nel pensiero di chi l’ha formulata, e la vibrazione specifica del “grado d’essere” di chi sta parlando. Da quest’ultimo punto di vista la parola scritta è una parola morta, e a ogni lettura noi dobbiamo resuscitarla attraverso la vibrazione dell’istante di vita che stiamo vivendo di persona, generalmente così diversa da quella contenuta nella parola pronunciata o scritta da altri, che l’essenziale del messaggio va perduto”.

Concludo con le parole di Andrea Camilleri, altro letterato che ha compreso appieno il valore del dialetto, sia nella letterattura che nel teatro, e invito gli attori e i drammaturghi che leggeranno questo articolo a iniziare questo studio disperato della parola viva il prima possibile, arrivando a diventare quegli “spiriti necessarii” di cui ha bisogno il teatro.

“Anche quando non scrisse o tradusse più in siciliano, il dialetto in Pirandello continuò a esser presente e vivo e non solamente come “nostalgia di linguaggio poetico, cioè creativo”, ma nella continua ricerca, come dichiarò Pirandello stesso, di “una lingua italiana che vuol serbare fin dove è possibile un certo colore, un certo sapore del vernacolo nativo”. Queste parole Pirandello le scrisse a proposito della sua tradizione italiana di Liolà ma io credo che siano una dichiarazione di principio valida non solamente per le opere teatrali ma anche per quelle narrative, novelle e romanzi. Ed è una lezione da meditare oggi che molti scrivono e parlano in una lingua, o impoverita dall’omologazione mediatica o imbastardita dagli apporti stranieri, destinata a ingiallire per mancanza di quella linfa indispensabile che è rappresentata dalla forza e dalla verità dei dialetti”. ⁸

 

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¹. Tullio de Mauro, Storia linguistica d’italia dall’unità a oggi, 2017 ed. Il Mulino

² Nicoletta Maraschio, La lingua: il nostro passato e il nostro futuro. Considerazioni sull’italiano nel quadro del multilinguismo attuale, 2009
http://www.accademiadellacrusca.it/it/scaffali-digitali/articolo/lingua-passato-futuro-considerazioni-sullitaliano-quadro-multilinguismo-a

³ Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia N. 261 del 11 Novembre 1933

⁴ Nicoletta Maraschio, La lingua: il nostro passato e il nostro futuro, 2009

Vittorio racconta Gassman – Una vita da mattatore, documentario di Giancarlo Scarchilli, 2010

⁶ Luigi Pirandello, Discorso alla Reale Accademia d’Italia, 3 dicembre 1931

⁷ Henri Thomasson, Prima dell’alba, Longanesi, 1988

⁸ Andrea Camilleri, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia – Serie IV, Vol. 4, No. 2 (1999), pp. 439-450

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