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Se iniziamo dall’etimologia, ossia dalle radici delle parole, raramente possiamo sbagliare. Quindi ecco qui, cosa ci dice il Vocabolario etimologico della parola:

poeta = lat. POETA dal gr. POIETES che propr. vale colui che crea, che fa che inventa, che compone, da POIEO, creo produco, faccio, invento […]

La poesia quindi non è solo una prerogativa della scrittura su carta. Anche il corpo umano è costantemente poetico, poiché crea, fa, inventa, compone… nel suo essere vivo e pulsante, produce significati. Se è vero com’è vero che non possiamo non comunicare¹, il nostro corpo costantemente comunica qualcosa all’esterno, e chi osserva diventa in quel momento un lettore, un lettore della poesia del nostro corpo, e viene chiamato spettatore.

Sui nostri corpi è scritta la nostra storia. Non parlo qui della pratica dei tatuaggi, che qui in occidente hanno senso sì e no, parlo del corpo come entità biomeccanica. Il corpo è come una statua di creta che ogni giorno viene plasmata, schiacciata da una routine che poco o nulla ha a che fare con l’organicità dell’organismo. I banchi di scuola uccidono i corpi già nel loro formarsi. Lo stare seduti per ore davanti alla televisione, a un computer, la catena di montaggio e i lavori massacranti fanno il resto…

Sul corpo dunque si scrive. Oggi come oggi sui nostri corpi ci scrivono gli altri. Noi siamo ancora analfabeti, ci facciamo scrivere addosso, un poco per volta, senza accorgercene, come in quel gioco da bambini, dove lettera dopo lettera si forma la parola “asino”. Il corpo compensa come può, si contorce, si divincola nel tentare di ritrovare un equilibrio nuovo, e piano piano alza una spalla da una parte, poggia strano un piede dall’altra, e iniziano a farci male schiena, ginocchia e certi movimenti. Ogni piccolo dolore è il corpo che ci parla, segnalando un problema.

Tutto questo ha ovvie implicazioni teatrali.

Dobbiamo imparare a scrivere, a scriverci addosso. Tentare di cancellare ogni frase sbagliata scrittaci da altri e ricominciare. Dobbiamo riuscire a plasmare il nostro corpo, per farlo aderire all’anima, perché il pensiero si trasformi in azione concreta. Perché il corpo formi parole più buone, più belle, più poetiche. Il corpo vivo può scrivere solo poesie. Proprio come un componimento poetico, il corpo in azione è un distillato di pensiero.

Come nella poesia, dobbiamo eliminare ogni parola superflua, qualunque cosa che blocchi il ritmo della lettura, per lasciare solo l’essenza. La poesia è precisa, il corpo dell’attore lo deve essere altrettanto, sia nel teatro ma anche nella vita. Essa può essere in versi liberi, anche il corpo in teatro può essere libero da una stretta precisione formale, ma deve compensare, proprio come fa la poesia in versi sciolti, con un contenuto denso, ovvero con una presenza extra-ordinaria e un’energia che si irradia all’esterno.

Un corpo non poetico in scena non è interessante: si porta dietro tutta la banalità del quotidiano, assomiglia a una frase fatta ed esprime solo l’assenza di vita, con il conseguente disagio che ne deriva per lo spettatore.

Se “teatro”, vuol dire “guardare” e, spingendoci oltre, anche “meravigliarsi”, allora bisogna guardare un corpo che sia poesia per gli occhi e quindi per la fantasia, diventare perciò spettatori, con i sensi, e non con l’intelletto.

 

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In foto I Wayan Bawa, maestro di danze balinesi e specialmente di Gambuh, la più antica forma di danza-spettacolo di Bali.

¹ Paul Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana.
Per lo studioso “non si può non comunicare“. (Watzlavick, 1971, p.44)

 

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