memoria delle cantine

In un film albanese degli anni 70, si raccontava la storia di un partigiano morto in battaglia. Finita la guerra, lo stato decide di dedicargli un monumento, un busto gigante da mettere nella piazza della sua città natia. La statua viene portata dagli amici a piedi, dandosi il cambio di volta in volta. Giunti alla piazza, i suoi genitori la vedono e chiedono al rappresentante del governo: “Possiamo tenerlo a casa nostra, almeno per questa notte?” Quello risponde: “No signora, perché lui non è solo vostro. Lui è di tutti”. La parafrasi fatevela da soli.

Peter Brook disse molto tempo fa, e ribadisce ancora oggi che il problema principale del teatro è il prezzo del biglietto¹. Non è possibile oggi che il teatro sia solamente per chi se lo può permettere economicamente. L’elitismo teatrale, come disse lo stesso Brook, deve crearsi “[…] per chiunque abbia voglia di andarci nel desiderio di condividere un’esperienza non raggiungibile nell’isolamento e davanti al gelo di uno schermo”², ma questo si può fare solo se tutti vengono messi nella condizione di poter guardare uno spettacolo senza dover scegliere tra il biglietto e una settimana di spesa al supermercato.

Perché i prezzi dei biglietti sono alti? Per poche ragioni, in verità: per i contributi che un attore deve versare agli enti statali (leggi ‘burocrazia’), perché il teatro sta venendo sempre meno sovvenzionato dallo stato, e poi per la sontuosità di molte strutture ospitanti, chiaramente borghesi, chiaramente museali le quali ospitano solo un certo tipo di produzioni.

Mi rivolgo qui ad attori, registi, persone che possiedono uno spazio adatto a ospitare spettacoli teatrali.

Portate i vostri spettacoli in luoghi occupati, case, garage, cantine, circoli privati, ovunque non ci sia burocrazia e sontuosità. Ovunque non si debba pagare per mostrare la propria arte. Replicateli lì, facendo pagare un terzo del normale biglietto. Tre euro vanno benissimo, cinque se siete in molti. L’offerta libera in generale è un ottimo compromesso.

Qui apro una parentesi dovuta. La produzione teatrale degli ultimi anni ormai risente pesantemente dei tagli alla cultura e della mancanza di reperimento fondi. Sono sempre più rare le produzioni massicce da dieci-quindici attori, poiché per sostenere spese e spostamenti di una mole tale di persone, con relativo personale tecnico a seguito, scenografie, costumi e quant’altro, occorrerebbero pubblici enormi e costi dei biglietti molto alti.

La produzione teatrale sta risentendo della “crisi”, e si adegua come può. Gli stessi drammaturghi contemporanei hanno ben radicato nella mente il concetto, e già pre-vedono i possibili costi della messa in scena delle proprie opere, dunque il problema si sta ampliando fino alla radice. Ora la tendenza è una produzione povera da due-tre-quattro attori, praticamente senza scenografie, o con elementi scarni, cosa che va in linea con il concetto di teatro povero. Praticamente le produzioni teatrali cercano di creare spettacoli che assieme a costumi e scene, stiano dentro una normale macchina da quattro posti, anche se scomodi. L’alternativa sono i monologhi, che riescono a stare all’interno di una o due valigie, a portata di treno o autobus. E’ un peccato che il teatro povero sia tale per mancanza di mezzi e non per una scelta artistica, poiché questo snatura il suo stesso concetto.

La cosa buona dei tagli alla cultura, se di buono si può parlare, è che gli attori si ritroveranno sempre più in ristrettezze economiche, e si opererà una scrematura naturale: solamente chi avrà la vocazione per questo mestiere continuerà a farlo attraversando le mille difficoltà e le privazioni che comporta, lasciando fuori quelli che fanno teatro per diventare “ricchi e famosi”³.

Tornando a noi, è sempre meglio che il vostro spettacolo lo vedano cento persone pagando cinque euro a testa, piuttosto che lo vedano cinquanta persone pagando dieci euro a testa. Anche se il risultato matematico e monetario è lo stesso, la prima scelta ha dei surplus: il primo è che banalmente il vostro lavoro viene visto dal doppio delle persone, e ricordiamoci che lo scopo del teatro è quello di essere visto. Il secondo plus-valore è invece, come già anticipato, più sottile ma non meno importante: far sì che il pubblico teatrale non debba trasformarsi in élite. Ci sono persone che si possono permettere di pagare dieci, ma altre non possono. Il teatro non deve discriminare in base a questo, diventando ancor più di oggi, un’arte per pochi, dai borghesi per i borghesi. Nasce come arte popolare, comunitaria: dai cantastorie attorno al fuoco dei villaggi, e rinasce dai commedianti dell’arte come contrapposizione ai teatri del re, nelle piazze, nelle strade, ed è lì che deve ritornare, sia fisicamente, che artisticamente. Dal popolo per il popolo. Non bisogna aspettare che arrivino le persone da noi, dobbiamo andare noi dalle persone, schiodarle dagli schermi lobotomizzanti che sempre più li chiudono in loro stessi e nelle case. Bisogna andare nei quartieri, all’aperto, chiamare la gente nei palazzi, citofonare, lasciare biglietti, darsi appuntamento nel cortile. Meno burocrazia, più arte; possono sembrare delle facili e ingenue frasi, ma sono insite nel cuore di ognuno.

E citando nuovamente Petrolini: “Bisogna prendere il denaro dove si trova, presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti”.

Per finire riporto una considerazione personale, da addetto ai lavori, che so essere comune a molti miei colleghi, attraverso le parole di un bravo cantautore.

Camminare con quel contadino / che forse fa la stessa mia strada. / Parlare dell’uva, parlare del vino / che ancora è un lusso per lui che lo fa”.4

La parafrasi fatevela da soli.

 

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Immagine dell’articolo:
Memorie dalle cantine, Teatro di ricerca a Roma negli anni ’60 e ’70.
Biblioteca Teatrale, Rivista trimestrale di studi e ricerche sullo spettacolo.
BT 101-103, gennaio-settembre 2012
Rosa di Lucia al teatrino scientifico in “Insulti al pubblico” di Peter Handke, regia di Bruno Mazzali, Roma 1979 (R. Nicolini, F. Purini, L’effimero teatrale. Parco centrale Meraviglioso urbano, La Casa Usher, Firenze 1981, p. 53).

¹  The Guardian: “I hate nothing more than art and culture”
(http://www.theguardian.com/stage/2005/jun/08/theatre2)

Neil Bartlett (playwright/director): Do you still think the most important thing in a theatre’s health is cheap tickets?

Peter Brook: Yes. This has been my most strongly held belief since we started in Paris. My greatest pride was that we could do an opera – which was Carmen – and charge as little as 30 francs. And, when we were in New York recently, we were very disturbed that seat prices at the Brooklyn Acad emy of Music had gone way beyond what they were in Mahabharata days. So we played at Columbia University and in the Harlem communities at half the original price. […]

² “Grazie alla televisione e a Internet non c’è più alcuna élite nella comunicazione e nell’arte, nessun prodotto artistico è inaccessibile, e il teatro come élite vuol dire un luogo rigenerante e positivo fatto per chiunque abbia voglia di andarci nel desiderio di condividere un’esperienza non raggiungibile nell’isolamento e davanti al gelo di uno schermo”
Peter Brook, intervista a Leonetta Bentivoglio, da “La Repubblica” del 16 maggio 2010

³ “Io ho insegnato per diciotto anni alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano. Quattro anni fa ho smesso. Ho smesso per molte ragioni. Una è che i ragazzi venivano a scuola per diventare ricchi e famosi. Nient’altro. Diventare ricco e famoso non è un obiettivo esecrabile. Ma avere solo quell’obiettivo, sì. Quello mi sembra ripugnante. Del resto non capivo neanche più bene che necessità ci fosse di una scuola di teatro, oggi, in Italia.”
Gabriele Vacis: scuola per attori a Gerusalemme. Lettera. «Teatro e Storia» nuova serie 1-2009 [a. XXIII n. 30]

4 Rino Gaetano, “Ad esempio a me piace il sud” canzone contenuta nell’album “Ingresso Libero”, del 1974. dal titolo azzeccato per questo articolo.

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